LETTERE DAL FRONTE I IIIC – IIID

Casella di testo: Altipiani di Asiago, 27 marzo 1917
Cara mamma,
spero che questa lettera vi arrivi visto che l’ho data a un vecchio boscaiolo che passava qui vicino. 
Ti scrivo questa lettera per dirti che sono ancora vivo e che sto bene anche se non credo di poter resistere ancora per molto. 
Come vorrei tornare a casa, vederti di nuovo e abbracciarti  dopo aver preso il nostro solito tè delle quattro... oh! Madre se vedessi le condizioni in cui tuo figlio deve stare, ti metteresti a piangere, tra fango e un pasto freddo continuiamo a far battere il nostro cuore. L’altro giorno sono morti due di noi, oh! Madre, e questa la fine che faro anch’io tra poco?
Di a mia sorella che le voglio tanto bene e che non vedo l’ora di rivederla, saluta anche mio padre, digli di non sforzarsi troppo e di riposare che tra un po’ tornero’ a casa e ricordatevi di pregare sempre per me.
Spero che questi miei righi vi siano di conforto, abbiate cura di voi, speriamo di vederci presto, con affetto 
                                                                                                                tuo figlio Gilberth.
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Altipiani di Asiago, 27 marzo 1917

Cara mamma,

spero che questa lettera vi arrivi visto che l’ho data a un vecchio boscaiolo che passava qui vicino. Ti scrivo questa lettera per dirti che sono ancora vivo e che sto bene anche se non credo di poter resistere ancora per molto. Come vorrei tornare a casa, vederti di nuovo e abbracciarti  dopo aver preso il nostro solito tè delle quattro… oh! Madre se vedessi le condizioni in cui tuo figlio deve stare, ti metteresti a piangere, tra fango e un pasto freddo continuiamo a far battere il nostro cuore. L’altro giorno sono morti due di noi, oh! Madre, e questa la fine che faro anch’io tra poco? Di a mia sorella che le voglio tanto bene e che non vedo l’ora di rivederla, saluta anche mio padre, digli di non sforzarsi troppo e di riposare che tra un po’ tornero’ a casa e ricordatevi di pregare sempre per me. Spero che questi miei righi vi siano di conforto, abbiate cura di voi, speriamo di vederci presto, con affetto

                                                                                                                tuo figlio Gilberth.

Locvizza, 24 giugno 1915

Cari genitori,

vi sto scrivendo queste poche righe per dirvi che sto bene fisicamente ma fatico emotivamente ad andare Avanti. l’unico modo per trovare la forza di andare avanti è quello di pensare e ripetere nella mia mente che tutto finirà presto. Sono già due mesi che siamo costretti a vivere in queste trincee, nonostante questo , qui ho incontrato molti ragazzi che come me ritenevano giusta questa guerra ma si sono dovuti ricredere, abbiamo imparato ad ascoltarci e a confortarci gli uni con gli altri, sono quasi tutti miei coetanei provenienti da tutte le regioni d’Italia. I nostri dialetti sono molto diversi tanto che a volte facciamo fatica a comunicare. Ieri sera siamo stati attaccati con molti colpi di fucile e mortaio e per difendere la mia vita e quella dei miei compagni ho dovuto sparare ad un uomo, nonostante i miei superiori mi ripetano che ho fatto il mio dovere sto molto male perche l’idea di aver ucciso un padre di famiglia o un ragazzo che non mi ha fatto nulla mi fa stare male e va contro ogni principio che mi avete insegnato. La guerra mi ha fatto capire che non esiste un uomo così forte da resistere a queste atrocità, infatti ho sentito nella notte il comandante e altri miei compagni  piangere. Cari genitori miei io vi prometto di essere forte e che l’orrore della guerra non mi piegherà . Arriverà presto il giorno in cui ci riabbracceremo, voi pensate soltanto a stare bene perché io ho già imparato a carvarmela e sono diventato un uomo.

Prego per voi che la guerra non vi abbia cambiati .

A presto vostro figlio Massimiliano

Forte di Vaux, 23 ottobre 1916

Cara mami,

è il 23 ottobre e mi trovo a pochi chilometri da Verdun, sul fronte occidentale, tra Germania e Francia. Probabilmente non sai nemmeno dov’è e forse, quando arriverà questa lettera, l’inverno sarà già passato, ma per farti capire meglio la situazione di disagio che c’è qui, nell’ospedale da campo, te la descriverò. Da poco si è combattuta una battaglia e la trincea è avanzata di 500 metri: questo significa migliaia di soldati caduti e molti feriti. Qui l’inverno è arrivato prima ed è anche molto imponente. Ogni sera vado a dormire molto tardi: mi stendo sul letto ma non riesco quasi mai a prendere sonno, a causa del freddo pungente, della paura che incombe e dei gemini dolenti dei feriti. Sai, sono riuscita a dormire solo una notte e ho fatto un incubo orribile: mi trovavo a terra, sdraiata, e accanto a me c’era il corpo deceduto di Philip, un soldato di 21 anni che viene da un paesino vicino al nostro; mi sono svegliata di colpo e ho sentito lo scoppio di due bombe. Madre mia, descrivere ciò che provo ogni giorno e ogni notte è così difficile che al solo pensiero mi viene da piangere. Qui ogni giorno muoiono soldati per infezioni, o persino per una banale influenza, tanto sono debilitati. Da poco una crocerossina è morta a causa di una bronchite e siamo rimaste in poche. Mami, ti ricordi quando giocavo ad essere un’infermiera, be’, quel sogno è diventato un incubo. Vedere persone morire, alcune volte anche amici, aver paura di morire io stessa, provoca un senso di angoscia enorme e, fidati madre, tutto ciò che dicono della guerra è finto. I giornali e alcuni politici parlano di guerra giusta, “unica igiene del mondo”, ma mentono, perché non hanno mai visto giovani ragazzi morire davanti ai propri occhi, non hanno sofferto la fame e non hanno mai avuto la paura di non avere un futuro. Al solo pensiero della parola “futuro”, il mio cuore si ferma, non so se avrò un futuro, non so se ti rivedrò e non so se mi sposerò mai. Sai, stando qui ho incontrato molte persone, per lo più uomini, e ho scoperto che l’unica paura dell’essere umano è la morte, che nessuna non ha paura e che stando qui scopri veramente cosa sia la paura. Mamma, ti ricordi quando da piccola avevo paura dei passi nel corridoio e tu mi dicevi che quei passi erano come il tempo, più passi c’erano e più il tempo passava? Qui accade il contrario: più sono i passi dei soldati, più il tempo rallenta e vorrei tanto che tu fossi qui per ripetere quella frase. Però tu non sei qui, tu sei molto più lontano, non ho certezze che sei viva e non so nemmeno se questa lettera arriverà, ma so per certo che tu mi senti e che un giorno ti rivedrò. Mi manca il suono della tua voce e la musica del grammofono che la mattina mi dava la forza di alzarmi dal letto. Ora, l’unica cosa che mi dà forza sono i soldati malati, che ogni giorno mi rendono felice, anche se dentro di me il cuore muore lentamente di terrore.

Ti bacio, Julie.

Verdun, 8 maggio 1916

Cara mamma,

ti scrivo per parlarti della mia spiacevole situazione al fronte. Ogni giorno noi soldati siamo costretti a combattere nella terra di nessuno, nelle trincee, immersi nel fango, tra cadaveri di soldati caduti e clima avverso. Comunque vadano le cose, non ci possiamo fermare, pena la fucilazione da parte dei più alti in grado. La salvezza di noi soldati è certamente l’ospedale da campo: a tal proposito, cara mamma, ricordi quando mia cugina voleva divenire una crocerossina? Ricordo bene che non ci parlammo per una settimana…avessi avuto io la possibilità di scegliere se rimanere o partire! Saluta il papà, è proprio grazie a lui se sono riuscito a divenire un meccanico di automobili, altrimenti avrei trascorso i miei anni chiuso in qualche fabbrica “uccidi-uomini”, trasformate in sforna armi, a causa della guerra. Ogni volta che combatto penso a te, ai tuoi abbracci, alle tue parole; vorrei essere a casa con te, a mangiare le tue prelibatezze, a cenare in famiglia. Qui invece mi sento solo, non riesco a socializzare con nessuno e ad ogni passo ho paura di morire, così, sul colpo, senza poter nemmeno pregare che la guerra finisca una volta per tutte. Per via del mio carattere timido e solitario, posso contare solo su di me. È ormai un anno che sono in queste maledette trincee e da allora dormo sempre poche ore, temo che ci bombardino senza poter scappare. L’altro giorno, mentre attaccavano una trincea francese, un proiettile mi ha colpito. Non ho visto più nulla, mi sono accasciato a terra e sono svenuto, senza forze. Mi sono quindi ritrovato nell’infermeria. Non preoccuparti, era una ferita di striscio, sto già meglio; qui è normale, anzi, sono stato molto fortunato. Cara mamma, come sta Jane? Quando sono stato colpito ho sentito la dolce voce di Jane, la mia amata: è un pezzo di me, mi manca vedere il suo sorriso dolce, i suoi occhi azzurri. Mi mancano il suo profumo, il suo sguardo misterioso e il suo carattere dolce e timido. Cara mamma, ho deciso di fare una promessa a te e a tutta la famiglia: anche se la Germania venisse sconfitta, riuscirò a tornare a Düsseldorf e tenterò di iniziare una nuova vita nell’officina di papà e rimanere sempre con Jane. Ora ti devo salutare, spero di avere presto tue notizie.

Vi amo tutti, Andreas

Germania, 11 maggio 1914

“Già dall’alba mezzi militari percorrono la città senza sosta, da una parte a un’altra e ogni due negozi appendono dei fogli enormi, tutti scritti con carattere minuscolo. Passati pochi minuti tutta la gente del quartiere corre velocemente verso quei fogli, anch’io vado. È impossibile avvicinarsi, tutti spingono e tutti urlano senza saperne il motivo; colto dalla mia curiosità mi faccio coraggio e come un carro armato mi infilo tra la gente per riuscire ad andare davanti. Ci riesco. Appena lì, lessi “Chiamata classe 1895, tutti gli interessati sono pregati di recarsi al 9° regimento di via San Andreas. Per ulteriori informazioni recarsi in caserma”. Una volta letto ciò corsi a casa pieno di euforia e presi lo stretto necessario, lo misi in una sacca di lana e corsi subito in via San Andreas. Arrivato lì c’era una calca di gente, tutti urlavano finché un soldato con una voce fortissima iniziò a parlare: “Tutti i qui presenti verranno divisi in ordine di peso, tutti dovranno mostrare il proprio documento. Successivamente verrete vestiti e armati per andare sul fronte francese.” Detto ciò iniziarono a pesarci e a smistarci per fasce di peso. Con me c’erano tanti altri uomini; eravamo tutti diversi, ma con un’unica cosa che ci accomunava, un sentimento. La paura, il timore e il terrore. Dopo qualche minuto ero in mimetica con un fucile, un corpetto provvisto di granate, munizioni e altre cose, un elmetto verde in tono con la divisa. Appena vestiti ci caricarono su un mezzo enorme, dove iniziò il mio viaggio.

 Jean Garçon

Verdun, 10 Agosto 1914,

salve madre, sono passati un po’ di giorni dall’ultima lettera che ho scritto ma non ti devi preoccupare, sto abbastanza bene. La scorsa volta mi sono dimenticato di chiederti come sta nostro padre e le mie sorelle, spero bene e spero anche che una volta finito qui tornerò in Francia, lascerò il lavoro in Germania e tornerò a casa. Comunque negli ultimi giorni siamo stati impegnati nella costruzione di una trincea, una sorta di buca enorme per ripararci, visto che hanno deciso di entrare in azione dal Belgio e poi scendere fino a Parigi per conquistarla. Il giorno seguente ho rischiato, anzi abbiamo rischiato di morire visto che quando sparavamo per un contrattacco un mortaio si è rovesciato facendo cadere l’ordigno a terra e con l’esplosione sono volate delle schegge di legno del controsoffitti che ci hanno colpito. Per questo sono dolorante alla gamba. Comunque nonostante ciò qui va male, gli inglesi sono pieni di grinta e ciò non li farà mai arretrare, poi con l’intervento dell’esercito francese è ancora più difficile riuscire ad avanzare. Ogni mattina prima che la tromba suoni per il cambio di guardia iniziano i bombardamenti, che fortunatamente non vanno mai in porto, ovvero che non centrano mai la nostra trincea; anche noi non mettiamo molti colpi a segno, perché tutti hanno paura di sporgersi troppo fuori: qui, ogni giorno, delle truppe escono fuori per andare all’assalto della trincea nemica, ma al loro ritorno sono sempre di meno. Qui è un terrore continuo; e non solo per il nemico, ieri abbiamo scoperto che ci sono dei traditori, e che sono disposti a fare di tutto. Nonostante sono qui da pochi giorni, sono in pessime condizioni fisiche: i vestiti si strappano di giorno in giorno, gli stivali con il caldo si stanno allargando e pietrificando, l’igiene…meglio non parlarne. Ieri il barbiere ha trovato dei pidocchi anche nel generale Fischer. Però a tenermi contento siete voi, il vostro pensiero mi fa passare qualsiasi dolore o tristezza legata a questa guerra; ho con me sempre una nostra foto, quella che ci siamo scattati sotto la Tour Eiffel, con papà stanco morto dal viaggio, con te che eri stracontenta del nostro viaggio, e anche dei vestiti che tutti noi ti avevamo comprato, e poi c’erano Charlotte e Florence imbronciate per via del viaggio perché sarebbero dovute andare al saggio di danza…che bei tempi.

Ma tutto ciò lo rifaremo perché una volta finito qui tornerò a casa: te lo prometto.

Fronte francese, Jean Garçon

Come ormai faccio da 1 anno o poco più, aspetto che i miei compagni cenino, e vado nella parte più nascosta della trincea, che è anche quella messa più in alto, mi è sempre piaciuto stare da solo e in alto, così apro il quadernino che utilizzo come diario e comincio a scrivere:

                                                                                             Caporetto 23 Giugno 1915.

Stamattina, come sempre,i nemici ci hanno dato il buongiorno a suon di bombe, tramite queste abbiamo perso ben sette soldati, ma non conoscevo nessuno di loro. In realtà conosco poche persone qui, circa dieci se non sbaglio, dieci su chissà quanti. Per fortuna ancora nessuno di loro è morto e per ancora più fortuna, neanche io. Oggi stranamente non è successo niente di ché, forse  con il caldo non funzionano le armi, o forse hanno capito che tutta questa messa in scena è inutile. Io di solito sto di guardia qui in alto, oppure resto ad aiutare i feriti,per quanto io odi la guerra, non ne ho ancora preso parte come gli altri, certo vado anche io al confine a sparare, ma è diverso da come lo fanno gli altri  e posso solo immaginare come si sentono dopo aver ucciso qualcuno. Finora non ho ancora fatto qualcosa per far sentire meglio i miei compagni, non ho mai cantato, offerto il vino, scritto lettere alle loro famiglie, anche se non l’ho fatto neanche per la mia. Probabilmente quando morirò non lo saprà nessuno, meglio così, almeno nessuno soffrirà più di quanto già sta facendo in questo momento. Tutto sommato qui sto bene, tolte le volte in cui rischio di morie, o di quando uccido qualcuno, cosa successa raramente però…” Finito di scrivere sento degli spari, allora scendo e vado ad avvisare gli altri che stavano ancora cenando, certo che domani mattina inizierà di nuovo tutto daccapo… come ogni giorno Carlo Mancini

Caporetto, 20 ottobre 1917

Carissimo Aldo,

come stai? Spero bene. Gli zii come stanno? E tua sorella Anna? Saluta tutti, di’ loro che mi mancano molto. Qui ho pochissimo tempo per scrivere, purtroppo c’è molto da fare: turni di guardia massacranti, perché siamo in pochissimi tra medici e crocerossine; gli scontri al fronte sono duri, ci sono sempre tanti feriti qui in ospedale ed è una vera lotta contro il tempo. Ho ventidue anni e mi ritrovo con la vita delle persone in mano. L’altro giorno ho soccorso un soldato che era stato colpito da un proiettile alla coscia: implorava il mio aiuto, ma versava in condizioni gravissime, non abbiamo potuto fare nulla. Questo giovane ragazzo, insieme ad altre centinaia di persone, mi ha fatto riflettere e mi sono chiesta che cosa stiamo facendo a questa terra, ai nostri uomini, alle nostre stesse vite. Mi chiedo cosa spinga un uomo ad odiare così tanto, fino a porre fine alla vita di un altro uomo, quale sia il desiderio che spinge due uomini diversi a scaricarsi addosso proiettili da una trincea all’altra. Io, di tutto questo, penso che la guerra sia una cosa inutile, che porta solamente morte e distruzione; questo ospedale sembra un inferno e spesso mi guardo e vedo solo la mia impotenza di fronte a tanto dolore. Caro Aldo, ti saluto, vado a salvare altre vite. Saluta tutti: vi mando un bacio e un abbraccio.

Spero di vedervi tutti presto,

Valeria

Sedan, agosto 1918

Amata Ginevra,

qui sul fronte siamo ormai tutti stremati sono due giorni che combattiamo senza sosta; il nostro generale è fissato, si capisce da quello che dice e che fa che non ce la fa più, ci da ordini in continuazione e non la smette, la maggior parte di queste regole sono insensate e per colpa sua è morta già un terzo della squadra. Ora ci stiamo difendendo dai contrattacchi dei nemici, che stranamente tutt’all’improvviso hanno cessato, mentre aspettiamo però con ansia l’arrivo dei rinforzi li stiamo bombardando senza tregua da qualche minuto perché pensiamo che si siano apposta fermati per bombardarci con l’artiglieria pesante e cerchiamo di prevenirli. Oh Ginevra! Io spero che tu stia bene perché sei l’unica cosa che mi fa continuare a combattere e a darmi la forza per sopravvivere, soprattutto dopo aver capito che non saremmo mai riusciti a finire la guerra dopo questo fatidico mese, cosa che ha abbassato il morale a molti della nostra truppa ma soprattutto a me perché mi mancate tutti e non vedo l’ora di tornare da vincitore; uno dei tanti vincitori tedeschi!

Tuo         Andreas

Valloncello dell’Albero Isolato, 5 agosto 1916

Mamma cara,

ti scrivo questa lettera per farti sapere che sono vivo anche se forse quando ti arriverà sarò già stato ucciso o dagli austriaci o dalla fame. Lavoriamo tanto e in trincea siamo trattati come animali, non abbiamo intimità, né cibo e quello che ci danno, anche se disgustoso, dobbiamo buttarlo giù. Perché questa non è solo una guerra a chi uccide l’altro per primo, ma a chi sopravvive per ultimo. Vivere qua è come essere a un passo dalla morte, perché non saprai mai quando i nemici ti attaccheranno e quindi bisogna essere sempre attenti e pronti a difenderci da ogni pericolo. Siamo pronti, tutti schierati, come delle statue appoggiate al muro, con i fucili. Osservando i volti dei miei compagni vedo che sono tristi, impauriti, ma anche determinati a vincere, di vivere per la propria patria e soprattutto per la famiglia. In questo silenzio snervante ti chiedo di pregare per tuo figlio perché possa uscire da questo inferno sano e salvo. Ti chiedo anche di rassicurare mia moglie e di abbracciare i miei figli e di pregare per me                                                         Tuo figlio Federico

Cima Quattro, 12 ottobre 1916

Cara mamma,

non so se questa lettera ti arriverà mai, ma io non perdo la speranza che ciò avvenga. Non sai quanto mi manchi e continuo a sperare che lì da voi sia tutto in ordine, non l’inferno che c’è qui. Qui, invece, il cibo sta diventando sempre più razionato. In questo momento sono in trincea ed è appena stato comunicato che un soldato del nostro battaglione è morto; vicino a me c’è il mio amico Jonathan, purtroppo ha un braccio rotto, stiamo aspettando che la crocerossina venga a soccorrerlo. Ho paura mamma, ho paura di non vederti più; mi ricordo quelle parole che mi hai detto prima di partire: “So che ce la farai”. Quelle parole mi stanno facendo fare del mio meglio per tornare a casa vittorioso. Ho però bisogno di un tuo abbraccio, delle tue carezze prima di dormire, dei tuoi baci, di sentire il tuo profumo. Oggi a pranzo ho mangiato solo pane raffermo e acqua; quanto vorrei quella pasta al sugo che fai tu! Non ti ho mai detto che ti voglio bene, ma non sai quanto te ne voglio, sopra ogni cosa. So che prima di partire litigavamo spesso, ma sei la cosa più importante e bella della mia vita. Ogni mattina, in trincea, penso a te, quando combattiamo penso a te, a lottare e a tornare vivo per te. Quando ho maneggiato la prima arma è stato strano: mi sentivo potente e ho pensato “Ora li uccido tutti, maledetti nemici”…ma poi ho pensato…che senso ha?

E mi sono ripromesso che ci rivedremo.

Mi raccomando, quando torno preparami tante tue prelibatezze, e salutami tutti,

tuo Piero